Nascere in Messico è difficile (anche a livello burocratico)

A inizio dicembre ho avuto un figlio e fra tutte le preoccupazioni e magagne che vi potete immaginare c’era anche la registrazione della nascita. E potreste pensare, eh ma son cazzate, un documento del genere si ottiene facilmente. Nel. E la ragione principale è che la gente è bien pendeja. Ma andiamo con ordine.

All’ospedale il pediatra ha registrato come dati di mia moglie i dati presi dal suo certificato di nascita. E lì primo problema, perché nel luogo di nascita mia moglie ha scritto una cosa nel certificato di nascita e un’altra in quello di matrimonio. Ma una monata tipo che in uno dice il quartiere e in un altro dice la provincia, entrambi corretti, ma sbagliati perché non coincidono. Due giorni dopo essere arrivati a casa passo al Municipio (Registro Civil) a chiedere i documenti necessari. Dato che siamo nel Terzo Mondo, la prima domanda è stata: la madre è minorenne? No. In quel caso avremmo dovuto portare dei documenti di iscrizione e frequenza della scuola media. Non essendo quello il caso, mi ha allungato un fogliettino con i documenti necessari. Il fogliettino era stato stampato nel retro della fotocopia del documento d’identità di un güey. Alla faccia della privacy. Documenti richiesti: Curp di entrambi, certificato di matrimonio o in sua assenza i due certificati di nascita dei genitori, due documenti di identità con fotocopia, documento di nascita dell’ospedale con SENZA ERRORI (sottolineato due volte) e una penna blu. Perché non sprecheremo neanche l’inchiostro della penna per voi. La signora bassa e imbecille che mi stava informando (per semplicità) la chiamerò Tappo. Tappo ci tiene a precisare che il certificato di matrimonio deve essere ufficiale e del 2022. Se lo faremo in gennaio, deve essere del 2023.

Torno a casa e cominciamo a raccogliere i documenti. Notiamo subito che i dati del c. di matrimonio non coincidono con quelli compilati dal pediatra riguardo il luogo di nascita di mia moglie. Mia moglie richiede online la copia autentica del certificato del matrimonio e la ottiene scaricabile 12 ore dopo. Siamo nel 2022, il paese è digitalizzato e funziona, è la masnada di idioti che lavora nella burocrazia a renderlo un sistema kafkiano. E dato che conosco benissimo i miei polli, faccio non una, ma due copie di tutto, includendo certificati di nascita, nel caso mio con traduzione e postilla.

Arriva il martedì mattina e mentre porto i cani a spasso vedo che a terra di fronte a casa mia c’è la bolletta dell’acqua. La raccolgo pensando di pagarla il giorno stesso, tanto è l’ufficio di fianco al Registro Civil.

Ci mettiamo in movimento con il bebè perché deve lasciare le sue impronti digitali. Non scherzo. Tappo mi richiede tutti i documenti e quando vede la copia autetica del matrimonio stampata dice che non è valida la fotocopia, si accetta solo il documento ufficiale. Ma quello è il documento ufficiale, emerita imbecille. Ovvio che l’insulto non l’ho incluso nella mia risposta. Si ritira e dopo cinque minuti torna dicendo che no, non era nel sistema. allora le sbatto gli altri documenti che abbiamo. E Tappo dice: “y un comprobante de domicilio”. Gigantesca pendeja, quello non c’era nella lista che mi hai dato. Ma ricordate la bolletta dell’acqua che avevo in tasca? Miracolo, abbiamo tutto. Ci fa aspettare un’ora e mezza. Nel frattempo sfilano altre coppie che vogliono registrare le loro creature, già belle grandi, una è arrivata camminando. Poi ci danno un documento da compilare con il nome del bambino e altre cosette. Scrivo tutto con la penna blu che ci hanno fatto portare. Consegno a Tappo. Due minuti dopo mi rendo conto che non ho più la penna. Torno con Tappo e le dico che forse l’ho lasciata lì quando ho dato i documenti. “No me resulta” risponde la meschina hambreada.

Esce un’altra tizia con un documento stampato che dobbiamo controllare, per verificare eventuali errori. E ce ne sono. I miei genitori risultano messicani, il cognome di mia moglie è scritto male. Oh, mia moglie fa di cognome Gonzalez, non esiste cognome più messicano di quello, e sono riusciti a sbagliarlo. E volete che non bestemmi. Cinque minuti dopo mi fanno entrare in un ufficio e mi dicono che nel mio certificato di nascita non risulta la nazionalità dei miei genitori. No, è stato fatto in Italia, se sono stranieri lo indicano, sennò sono italiani per default. Sì ma il documento non lo dice. E allora va in stramona. Come compromesso, nel certificato di nascita di mio figlio i miei genitori risultano apolidi. Nazionalità: ——-.

Finalmente sembra tutto pronto, prendono le impronte digitali di mio figlio che ovviamente risultano due macchioline indecifrabili. Ci consegnano gli ultimi documenti e ci chiedono di firmare. Ma io non ho più la penna blu. E la vedo, sulla scrivania di Tappo. Dico alla collega di Tappo che era quella lì. Lei la prende e mi permette di usarla per le firme finali. Com’è umana lei. La faccenda della penna sembra una cosa seria perché a una coppia prima di noi hanno fatto un cazziatone perché non ce l’avevano. E se non fosse per la comprensiva signora che ci stava aiutando nella fase finale, la hijaeputa miserable hambreada imbecil de Tappo ci avrebbe obbligato ad uscire a comprarne una.

Alla fine ce l’abbiamo fatta. Due ore. In Messico si muore facilmente ma si registrano le nascite con difficoltà.

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Tonicol, la bibita alla vaniglia 100% messicana

Preparando l’articolo sulla vaniglia messicana ho letto che si fa anche una bibita gassata a base di vaniglia. Curioso come una scimmia, appena sono dovuto andare al supermercato l’ho cercata e BOOM, eccola, la Tonicol.

Il sapore è molto buono, ovviamente dolce, sa di vaniglia ma senza essere stucchevole, sembra una Coca cola alternativa.

Tonicol nasce in Sinaloa, a Mazatlan, da un Tony, ovviamente.  Don Antonio Espinoza de los Monteros, Don Tony, che la inventa nel 1880. Alla fine dell’800 nel Nord del Messico nascono due produttrici di bibite gassate, L’Eureka di Antonio Espinoza e l’Azteca di Don Enrique Castañeda.

All’epoca i sapori delle bibite non avevano un nome o una marca precisa, quindi si sceglievano i gusti indicandoli con il colore. Fra le bibite offerte quella che più risaltava era una nera, a base di vaniglia, simile alla bibita di cola, chiamata Tonico (compañia del Tony). Ma la Bayer faceva una medicina che aveva lo stesso nome quindi hanno dovuto modificarlo per ragione di copyright. A metà del Novecento le due imprese si uniscono e diventano El Manantial. Nel 1947 decidono di realizzare una bottiglia specifica e una grafica per il Tonicol, aggiungendo un bambino vestito allo stile sinaloense per sottolineare il carattere locale della produzione.

Nel 1966 l’impresa fu comprata da Angel Solorsa e cominciò l’espansione a livello nazionale con la distribuzione del Tonicol in tutta la Repubblica. Coca Cola e Pepsi cominciarono a fare guerra a Tonicol perché non volevano vederla crescere. Hanno anche cercato di produrre le loro versioni di bibite alla vaniglia, ma la gente continuava a scegliere Tonicol.

Quando il Messico ha introdotto le etichette di avviso per eccesso di zuccheri, calorie, sale… la Tonicol ha dovuto modificare la ricetta perché non voleva vedersi affibbiata nessuna etichetta di possibile danno alla salute. Ma facendo così, ha visto un’ola di lamentele arrivare dai clienti fedeli, perché i messicani amano i gusti ultra piccanti, ultra dolce, ultra salato, hasta que se mueran de diabetes o con gastritis. Quindi han dovuto modificare ancora la ricetta per renderla più dannosa e más sabrosa.

Sabato cercherò di usarla come base per cocktail, prevedo che con rum dovrebbe avere un buon gusto.

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La Vaniglia, oro nero messicano

Ho dovuto preparare una lezione di Storia sul tema (a proposito, se volete entrare al corso di Storia contattatemi) e ne approfitto mentre ho ancora la memoria fresca per scrivere un articolo. L’oro nero del Messico, ancora prima del petrolio, è stata la vaniglia. Questa pianta infatti è originaria del Messico e in particolare delle foreste della costa Atlantica, una regione chiamata Totonacapan, nell’attuale state di Veracruz.

Qui la vaniglia era coltivata e usata dai totonachi, ovviamente come dolcificante ma anche per usi rituali e religiosi. Quando la regione è stata conquistata dagli aztechi, è entrata a far parte della rete di consegna e distribuzione dei tributi e come potrete immaginare fra i tributi che le venivano richiesti c’era la vaniglia. Che all’epoca non si chiamava così ma itlilxochitl, fiore nero. Gli aztechi non avevano fantasia.

E bisogna dirlo, neanche gli spagnoli. Il nome attuale, vaniglia, deriva da vainilla, piccola vaina, piccolo baccello, e questo dal latino vagina. Voi deciderete che nome preferite.

Gli aztechi la usavano per dare più sapore al cioccolato che all’epoca prevedeva anche il peperoncino fra gli ingredienti. Al momento della Conquista, gli spagnoli si resero conto del valore di quell’essenza e ben presto ne scoprirono l’origine. La vaniglia cominciò a esportarsi in Europa e a conquistare le classi sociali alte, dato il prezzo proibitivo del sapore. Mentre aumentava la popolarità, cresceva l’area di Veracruz dedicata alla coltivazione di questa orchidea. Sì, la vaniglia è un’orchidea. I totonachi continuavano ad essere usati come manodopera per questa coltivazione, “condannati” a restare al servizio della loro pianta mistica.

In Francia, all’epoca di Luigi XIV, la vaniglia era lo mero mero. Madame de Montespan, un’amante del Re Sole, si faceva il bagno con l’essenza di vaniglia. Qué elegancia la de Francia. A me viene la nausea solo a pensarlo, è un odore fastidioso, ma sembra che all’epoca troppo è meglio.

Tanto i francesi ne restarono ammaliati che decisero di cercare di coltivarla loro stessi. E avevano il luogo perfetto, che aveva un clima simile a quello messicano: l’isola Bourbon, attualmente isola della Réunion, al largo del Madagascar. Quindi cominiciarono a coltivarla… ma non funzionò. La pianta cresceva, dava fiori, ma non dava frutti. Cosa mancava? Un’ape.

L’ape Melipola (Xunan Kab) è un insetto messicano, non ha pungiglione ed era considerato animale sacro dai Maya. ed è la responsabile dell’impollinazione dei fiori di vaniglia. Niente ape, niente vaniglia. Cicca cicca, mangiarane. Per questo, durante due secoli, il Messico mantenne il monopolio della vendita della vaniglia nel mondo.

Fino al 1800 quando due signori hanno scoperto come impollinare artificialmente. Il primo fu un botanico belga ma il suo metodo era troppo difficile. Il vero rivoluzionario fu uno schiavo della Reunion, Edmond. Quando era ancora un bambino di 12 anni, provò ad aprire i fiori e con un bastoncino distribuiva il polline fra fiori maschili e femminili. E funzionò. I fancesi cominciarono a produrre vaniglia. Come premio per questa scoperta, Edmond fu liberato e gli diedero il premio supremo: il cognome di Bianco (Albius). Qué pinche tristeza.

A dare il colpo di grazia alla vaniglia naturale è stato lo sviluppo di quella artificiale, che ora copre la gran maggioranza del mercato. E si ricava dal benzene, derivato del petrolio. Perdón, totonacas.

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I terremoti di settembre

Settembre, mese patrio, di festa, tequila, chiles en nogada e terremoti. Ogni anno in quest’apoca le reti sociali vengono inondate di memes che ricordano alla popolazione la presenza di questi fenomeni orribili. A cosa si deve questo?

Principalmente al terremoto catastrofico del 1985. Il 19/9/1985 un terremoto dell’ottavo grado ha squassato la capitale, causando più di ventimila morti. La città è ripartita, gli edifici si sono ricostruiti, ma la cicatrice è rimasta, più nella memoria collettiva che nella topografia cittadina.

Cosa sono i terremoti? Sono eventi geologici, la cui origine è ad alcuni chilometri dalla superficie terrestre, dovuti alla pressione e al movimento delle placche, otre che alla rottura di queste o per sinergia con altri fenomeni come le eruzioni. Sono completamente imprevedibili. Vero? Ni madres, dicono i messicani. Cazzate, conferma il sottoscritto.

Settembre è il mese dei terremoti, piaccia o non piaccia ai geologi. Leggeri o pesanti, nel mese di settembre nel territorio nazionale è più frequente sentirli (o esserne vittima). Ma cinque anni fa si è sfiorato il ridicolo. Proprio come conseguenza del megasisma del 1985, la capitale ha implementato una simulazione di terremoto, da ripetere ogni 19/9, per preparare la popolazione. Quel giorno stavo lavorando, abbiamo fatto la simulazione, siamo tornati a lavorare e qualche ora dopo è arrivato il terremoto reale. 370 morti. Articolo qui.

Dal 2017, ogni 19/9 i messicani hanno la pelle d’oca e si scambiano memes per riderci su. Pure io stamattina ho pubblicato qualcosa.

Anche oggi c’è stata la simulazione. E anche oggi, poco dopo l’una, il terremoto, 7.6.

Ora, va bene dire che la scienza dice che i terremoti non sono prevedibili, però la realtà ti prende a calci in culo. E ovviamente fioccano le ipotesi assurde.

E se fosse un’arma? E se fosse un test nazionale o internazionale di una nuova tecnologia? Uno studente e grande amico, Armando, in quel fatidico 2017 mi ha raccontato un’ipotesi romantica: i messicani causano il terremoto. Con la simulazione, il governo obbliga milioni di persone a pensare al terremoto. A questo aggiungiamo altri milioni di persone che hanno vissuto il terremoto del 1985 e ogni 19/9 ripensano alla tragedia. Questa enorme massa di persone che pensano al terremoto….ne prevocherebbero uno. Più o meno come quando migliaia di napoletani si concentrano sul sangue di San Gennaro. Figata no?

Ma se dobbiamo parlare di ipotesi assurde e complotti, io ne ho uno che preferisco: è la lobby dei panettieri. Sti bastardi hanno delle vendite extra causate dalla tradizione messicana di mangiare un bolillo quando sono spaventati. E ne approfittano. Los panaderos causan los temblores para aumentar las ventas.

Non ho le prove ma non ho nemmeno dubbi a riguardo.

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Carne grigliata con contorno di razzismo

Questa settimana in Messico è stata notizia virale una figuraccia di un ristorante abbastanza famoso, il Sonora Grill. Anche se magari più che figuraccia è stato un comportamento illegale e disprezzabile. Da un account di Twitter è partita la denuncia:

Per i pochi di voi che non parlano spagnolo (immagino che se passiate per la valle di lacrime che è questo blog è perché avete qualcosa a che fare con il Messico) si dice che i clienti vengano selezionati all’entrata, dipendendo dal colore della pelle. Un apartheid alla buona, con i bianchi fatti sedere da una parte (zona Mousset) e quelli di pelle più scura relegati in un’altra sala (Gandi). Con un trattamento differente per i due gruppi di clienti, ovvio.

Questo si è scoperto nel ristorante in zona Masarik, la via dei Condotti messicana, la zona più cagona della capitale e dove le ragazze parlano con la E più aperta del buco dell’ozono (O SEEEEEEAAAA). Sono poi spuntati altri pessimi comportamenti legati alla marca, come il divieto di assumere personale dalla pelle scura in quella succursale, e se proprio erano contrattati doveva essere per supplire all’emergenza di qualche giorno. Chiaro esempio di classimo e razzismo alla messicana, nel paese che ripete a pappagallo “En México no hay racismo, hay clasismo”. ‘ngatumadre.

Per fortuna i messicani hanno reagito come sempre, con umorismo. Ed ecco quindi la giusta e inevitabile carrellata di memes.

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Il fiume Lerma, un ecocidio a due passi da casa

Mi sono trasferito a Lerma l’anno scorso e ne sono felicissimo. Un paesetto tranquillo con tutti i servizi. Unico punto dolente che lo rende non perfetto è il fiume che lo attraversa, chiamato come il paese, Lerma. Il fiume viene a volte chiamato anche Nilo, da Ni lo huelas (non lo annusare). Altro che faraoni.

Io ci passo spesso, perché quando vado a camminare devo attraversare un ponticello poco sicuro dove sempre controllo venti volte prima di passare per non essere investito perché c’è appena lo spazio sufficiente per fare passare due macchine nei due sensi, quindi due macchine e un mona a piedi ci passano con fatica.

Il fiume puzza tantissimo, si sente già a 50 metri di distanza, puzza da freschin e quando ci si avvicina si vedono le bolle che ti dan proprio voglia di tuffarti.

A cosa si deve? Ovviamente all’inquinamento.

Il Rio Lerma fa parte di un enorme bacino idrigrafico, il Lerma Chapala

Dagli anni Sessanta la zona di Lerma e Toluca si sono trasformate in un’area industriale importantissima a livello nazionale. Le fabbriche sono di meccanica o chimica, per esempio c’è la Tupperware che ha installato la sua fabbrica più grande proprio qui, sono 10 ettari di capannoni.

E con le fabbriche, il problema di trovare un posto dove scaricare i rifiuti tossici prodotti. Niente di più facile, buttiamoli al fiume. Sessanta anni dopo, ben poco è cambiato.

Il corridio Lerma- Toluca ora è la seconda zona industriale più importante del paese. Più di 500 industrie, tessili, meccaniche, chimiche, alimentari, automotrici, farmaceutiche, plastiche. Hanno installato un depuratore ma vengono trattate solo il 30% delle acque. Per quanto riguarda le sostanze tossiche presenti nelle acque, è un potpourri: metalli pesanti altamente tossici come mercurio, piombo e cadmio, altre sostanze chimiche nocive come toluene (C7H8) e benzene (C6H6), che non sono incluse in normative nazionali sugli scarichi in acqua.

E la cosa più ridicola è che non ci sono studi sull’impatto sulla salute. Se il Governo dimostrasse che esiste una relazione diretta fra numero di tumori e vicinanza con il fiume sarebbe evidente la necessità di fare qualcosa. Quindi meglio così, occhio non vede, cuore non vuole.

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La señora del puesto de garnachas

Silvia ha già trovato il suo proveedor de garnachas favorito di Lerma, una signora chismosa che troviamo in direzione del mercato. Domenica siamo andati al mercato quindi abbiamo fatto aperitivo lì. Niente spritz, solo sopes e quesadillas.

A un certo punto la chiamano, e tira fuori un telefono fisso. Allora mi rendo conto che la bancarella è proprio fuori della porta di casa. Perché avere il cellulare quando il filo del telefono di casa ti raggiunge fino all’ “ufficio”? Dice qualche parola con una signora, poi cammina rapido, ci passa di fianco con un discúlpenme e va verso una signora due bancarelle più in giù, e le grida che la sta cercando la figlia de no sé quién. Io osservo preoccupato la mia quesadilla abbrustolirsi sul comal. Quasi allungo la mano per girarla quando torna la signora e riprende il controllo della cucina. Tutto buonissimo ovviamente, come vuole il sazón di una signora grassoccia, chismosa e con la ricrescita dei capelli. Distratta dalla telefonata, ci racconta che varie volte l’hanno chiamata per una frode, simulando di aver sequestrato un familiare. Una volta le han detto che avevano preso suo marito. “Mi difunto esposo?” e aveva proceduto ad insultare pesantemente il disgraziato che l’aveva chiamata. Il quale poi l’ha minacciata, ma lei ha risposto che sa bene che si trovava in carcere, e che non aveva paura. E che avrebbe pregato per lui. Il truffatore ha ringraziato.

Molto peggio gli era andata a un vicino di casa. I sequestratori (falsi) avevano detto che se non avesse pagato 10mila pesos avrebbero ucciso sua figlia. Il signore si era spaventato e aveva chiamato la ragazza ma questa non rispondeva al telefono. Chiama chiama chiama. Niente. Disperato, aveva versato 10mila pesos a un conto pagandolo in una banca. In serata, la figlia torna col moroso. Dice che non ha risposto per non essere disturbata. Il padre quasi la prende a bastonate.

Due settimane fa è successo anche a me. Rispondo dal telefono di casa. Era una ragazza. “Aiuto mamma”. Ma sei proprio scema.

(Foto da internet)

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Lo dedico a te, a te, ate, ate ate

Uno dei dolci più umili e più buoni che si possono mangiare in Messico è l’Ate. È una sorta di budino solido, o confettura da tagliare, a base di frutta, la più frequente di tutte è il membrillo.

Già, il membrillo, da quando vivo qui mi è sempre sembrata una cosa strana. Lo associavo alla frutta tropicale, mango, papaya, zapote…e membrillo, no? Pos no. Il membrillo è nostrano. Agli studenti ho sempre detto di non tradurre il nome della frutta esotica in italiano perché si mantiene quasi lo stesso termine. Che enorme sorpresa ho avuto quando Google translate mi ha detto che il membrillo è il MELO COTOGNO. Porca puttana, altro che esotico. E risulta che io ho mangiato ate de membrillo già in Italia, da bambino, solo che si chiamavano marmellatini di melo cotogno. E l’ho scoperto l’anno scorso, Dio cristo.

Dopo questa epifania, torniamo all’ate. Come vi immaginerete, l’ate di melo cotogno non è un dolce originario del Messico, è arrivato qui con gli spagnoli. Quel che si è messicano è la versatilità di preparazione. Perché qui non lo fanno solo di melo cotogno, ma di varia frutta, come guayaba, fragola, tejocote, mela, pera, zucca…e qui vi tocca un’altra epifania: sapete perché si chiama ate? Perché il dolce usava il suffisso ate con la frutta che aveva di ingrediente principale: manzanATE, guayabATE membrillATE…ma porca miseria sembra una scemenza e invece è la verità.

Quando si mangia, normalmente si accompagna con un formaggio, di solito un manchego. Ed è buonissimo, come tutti gli italiani che hanno mangiato formaggio e pere possono immaginare.

Al contadino non far sapere quant’è buono il formaggio con le pere.

Al mexicano non rivelate quant’è buono el manchego con el ate.

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Una serie di sfortunati eventi (2)

Ebbene sì, secondo capitolo di sfighe perché il primo l’avevo scritto ben cinque anni fa. Porca miseria sto blog è durato più di certi matrimoni. Guiño guiño.

Dopo il ritorno dall’Italia ho ripreso abbastanza velocemente la mia routine lavorativa. Tutto bene, avanzavo pacifico e produttivo in modalità Home Office. C’era solo una puntina di fastidio: la bolletta della luce non arrivava. Strano, ma insomma, diamole un’altra settimana. No, non arriva. Aumenta la paranoia. Vuoi vedere che mi tagliano la luce solo perché un idiota non trova la mia casa? Mettono la bolletta fra le sbarre del cancello, in balia del vento, della pioggia o della semplice cattiveria altrui. Magari si è persa per strada. Girando con i cani vedo una bolletta spiegazzata e sporca, la raccolgo, no, non è mia. Basta, meglio controllare. Decido di chiamare la CFE, commissione federale d’elettricità, l’antica Luz y Fuerza, come si chiamava l’ente dell’elettricità messicana. Se camminate a testa bassa come me noterete sicuramente che molti tombini hanno le lettere L F con un fulmine in Messico. Non è Flash, è Luz y Fuerza.

Comunque, chiamo, con i dati di una bolletta anteriore. Mi chiedono i numeri del conto e il nome del titolare, io dico no, sto affittando ma la bolletta non è a nome del proprietario di casa, è intestata a una certa Mayra. E mi dice che non ci sono addebiti, l’ultima bolletta è stata pagata il dieci maggio. Strano. Non l’ho ricevuta, quella. Riaggancio e sono allegro, qualche imbecille ha pagato la mia bolletta, hahaha. Poi faccio due più due. La bolletta non arrivava, era a nome Mayra….ma vuoi vedere che l’imbecille sono io? Scrivo al proprietario di casa per chiedere se è normale che la bolletta nostra risulti a nome di una certa Mayra. Mi risponde con una foto di una bolletta col suo nome. Accertato, l’imbecille sono io. Da settembre fino a marzo ho pagato le bollette di qualche vicina di casa. Ma [divinità zoomorfa].

Arriva sera e sto dando l’ultima lezione che finisce alle 7. Venti minuti prima della fine, salta il Wi-Fi. Incidente da nulla, accendo i dati del telefono e chiamo la studentessa per concludere la lezione via telefono. Nel frattempo cerco di ripristinare il Wi-Fi. Strano, non c’è. E non sto dicendo che non c’era la connessione, ma proprio non c’era il simbolo di Wi-Fi. Finisce la lezione e comincio a controllare il pc, perché nel computer che avevo prima c’era un interruttore esterno per interrompere la connessione, magari l’ho toccato con il libro. No, non c’è niente. Fa niente, spengo e riaccendo. No. Faccio partire il diagnostico di Windows, non trova niente. Sale il panico. Chiamo mia moglie, cerca di usare qualche combinazione della tastiera, no. Cerchiamo con delle combinazioni che possano funzionare in una Lenovo, nemmeno. Chiamo il cugino di mia moglie, ingegnere informatico, che mentre sta guidando mi aiuta a cercare il problema. Lo trova, è un problema di driver, o almeno mi sembra abbia detto questo, il mio diploma di perito informatico serve solo da tovaglia quando mangio la carbonara, non so un piffero di informatica. Diagnosi, o è un virus o si è bruciato qualcosa del pc, la cosetta che serve per ricevere il Wi-Fi. Cosetta è il termine tecnico, chiaramente. Peccato che io col pc ci lavoro, anzi, ci vivo, perché mi permette di mangiare. Nel pc ho i libri, gli audio, i video, l’archivio con tutte le lezioni di storia. Ne ho assoluto bisogno, quindi o riparo il pc o il giorno dopo alle 7 devo andare subito al Walmart a comprarne un altro. Vi giuro che fra luce e pc volevo piangere. La notte è stata una merda, ero pieno di nervosismo.

Giorno dopo, cominciamo a risolvere il mondo. Mi armo di palle d’acciaio e chiamo Cfe. Comunico il numero del contatore e mi danno il numero del conto di casa. Mi siedo (non volevo svenire e sbattere la testa) e chiedo quanti soldi sono addebitati. Dice 690. Pesos? chiedo. Pesos, risponde. 690mila pesos sarebbe stato un po’ troppo in effetti, ma voi non conoscete il Denis paranoico. Quindi, ottima notizia. Di sette mesi dovevo solo 34 euro. E ho pure fatto beneficenza a quella sgualdrina della Mayra. Corro alla Cfe che si trova dall’altra parte della Statale. Il “corro” è letterale perché non c’è attraversamento pedonale e l’unica cosa fra te e la morte sono le buche della strada che obbligano i chilangos che vanno a Toluca a rallentare. Arrivo, gentilissimi, pago in contanti. Mi dicono che sono 720. Ah, non erano 690? L’impiegata chiede se non mi hanno staccato la luce. Dico di no. Strano, risponde, allora sono 690. Effettivamente, quei pochi pesos di differenza è quello che si paga se vuoi che ti riallaccino il contatto. Erano le 8:10 e già avevo risolto metà dei problemi.

Alle 10 apre un negozio di informatica a Lerma, l’avevo trovato su internet e con buone critiche. Ma essendo un negozio messicano, erano le 10:35 e ancora non apriva. Nel frattempo ho fatto amicizia con un distinto signore, pure lui fuori dal negozio dalle 10 per ricaricare una cartuccia della stampante, e un punkabbestia con un piccolo bulldog dallo sguardo triste. Sembravamo la versione squallida dell’A-Team.

Il punkabbestia era chiacchierone e a un certo punto mi ha chiesto che era successo, ho detto che il pc non funzionava, si è gentilmente offerto di darglielo lui a quelli del negozio, se avevo fretta poteva lasciarglielo. No, grazie, gentilissimo, preferisco aspettare. Alla fine arriva il tizio del negozio alle 10:45. Consegno il pc, e il punkabbestia si siede. Risulta che è uno dei tecnici del negozio. Eh vabbè, mille punti ai miei pregiudizi. Ma il bulldog triste mi ha tratto in inganno. E pure i suoi vestiti da cholo.

Durante la settimana lavoro con l’iPad e cancello le lezioni di cui non ho i libri perché per alcuni corsi ho solo la versione digitale dei testi. Fra martedì e giovedì fanno dei lavori delle cisterne e tubature e interrompono l’acqua dalle 10 alle 18. Peccato che non hanno avvisato, è stata una splendida sorpresa. Così non solo stavo lavorando da bestia con l’iPad, ma dovevo anche cercare di non cagare fino alle sei perché l’acqua non era ancora tornata.

Venerdì, mi chiamano dicendo che è tutto risolto. Era un problema di Windows 11, aggiornando ha eliminato una parte, e pare che quel sistema operativo stia facendo tanti macelli. Risolto tutto formattando il pc e installando Windows 10. Per fortuna avevo fatto una copia di tutti i libri in una memoria portatile. Prezzo 380 pesos per il lavoro.

Sono a dieta ma venerdì sera mi sono permesso il primo alcolico da quando sono tornato in Italia. Un caballito de Jose Cuervo per festeggiare la fine di una settimana di popò.

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Un ritorno agrodolce

In marzo sono riuscito a tornare in Italia. Erano ormai tre anni che non rimettevo piede in patria, dal maggio del 2019. Poi Covid e così via, la paura di contagiarmi in viaggio e di contagiare la famiglia all’arrivo. Mio papà è un soggetto a rischio quindi non mi sono sentito tranquillo finché ho saputo che ormai erano già tutti vaccinati.

Ciononostante, anche dopo aver comprato i biglietti ho avuto paranoie, classiche compagne di vita, e non ho veramente pensato a rallegrarmi fino all’arrivo a Venezia. Le stesse paranoie però mi hanno permesso di avere il green pass prima ancora di arrivare, quindi non posso smerdarle tanto, a volte sono utili. Però sentivo che in parte non volevo prenotare hotel, musei, treni, non volevo crederci al viaggio fino al mero día, come dicono qui. Poi è andato tutto bene. Stavolta avevamo un mese intero da passare in Italia, quindi è stato un viaggio differente dalle due settimane striminzite che sempre ci prendevamo.

Ho quasi subito notato che stavolta era diverso perché tre anni di distanza mi facevano sentire tutto più intensamente. Mi ero portato il Messico con me e stavo rivedendo l’italia con occhi stranieri. La gente che si ferma quando ti vede sulle strisce. Madonna, che picco di civiltà. La tavolozza dei colori dei campi, con l’aria pulita e l’odore di piscio appena buttato. Meglio del pane fresco. Le strade pulite, marciapiedi ben fatti, i treni. Che roba sto primer mundo.

Avendo tutte le lezioni online, mi sono pure permesso di lavorare qualche giorno da là. Ovviamente con il fuso orario messicano, quindi si comincia alle due del pomeriggio e si lavora fino alle dieci o mezzanotte, sacrificando le lezione della sera perché in Italia avrei dovuto finire alle tre di mattina. Avaro e tutto, ma c’è un limite. E quasi un quarto degli studenti mi ha detto Ma no, goditi l’Italia, ci vediamo fra un mese quindi anche il lavoro è stato molto leggero.

Poi è cominciato il viaggio. Abbiamo programmato un giro del Nord Italia, passando per Milano, le Cinque terre, Genova, Piacenza, Modena. Poi siamo andati a Venezia da mio fratello, e per finire un giretto rapido in Friuli, vedendo Udine e Cividale. Tutto bellissimo, tutto buonissimo. Ragazzi, vivete in un paradiso e non lo sapete. Anzi, vivevo in un paradiso e non lo sapevo.

E poi la gente. Ovviamente la mia famiglia, che sono stato felicissimo di trovare in salute, e sinceramente forti come sempre me li ricordo e me li immagino. I miei genitori che ancora mi sorprendono, con l’incredibile facilità con cui hanno digerito il progresso tecnologico. Mia nonna che pela le mele e le lancia in un vassoio. Le lancia. Porca puttana, se lo faccio io mia moglie mi sgrida, ma capisco da chi ho preso la maniera burbera di trattare le cose. I miei fratelli, ognuno nella propria nicchia splendidamente differente, che figata vederci tutti e tre fiorire in contesti così distanti. E gli amici. Non sono mai stato uno che ha cento amici, ma ho avuto fortuna perché ho conosciuto persone splendide e alcune sono ancora contente di vedermi. Altri amici fatti in Messico li ho rivisti proprio in Italia davanti al frico e bottiglie di vino.

E tutto l’ho fatto a cuor leggero. Normalmente le due settimane in Italia le passo soffrendo e contando i giorni che mancano prima di tornare, e la tristezza per non poter rimanere di più non mi permette di godermeli. Stavolta no. Ho apprezzato tutti i giorni. E in parte vedo che tre anni in Messico sono difficili da lasciare da parte. L’ansia tipica della mia famiglia l’ho un po’ imbrigliata e non sono più così disperato. L’amabilità col prossimo, tipica dei messicani, che mi fa vedere gli europei come freddi e distanti, solo perché non sono abituati a salutare gli sconosciuti quando c’è la possibilità.

E il tornare in terra azteca è stato più duro, perché un mese è comunque un mese. La prima cosa che ho notato è il silenzio che si può tranquillamente chiamare solitudine. Vivo in culo ai lupi e qui non ho quel giro di amici che in Italia mi fanno sempre sentire amato, neanche dopo dieci anni in Messico. E le camminate. Ho fatto un giro per dove vivo e mi è venuta la depressione, dopo un mese nella campagna vicentina ho visto lo sporco, il grigiore, il pericolo costante per le macchine che ti portano a controllare tre volte prima di attraversare. Cose che ho sempre avuto davanti ma che non vedevo più perché ormai erano parte del sistema, era “normale”.

Una cosa che mi ha mantenuto felice e senza ansie durante la mia permanenza in Italia è l’essermi reso conto che posso e voglio tornarci. Che ora i viaggi dureranno minimo un mese ma che sicuramente le mie ossa riposeranno a Vicenza. O se volete spargete le mie ceneri nell’Astego (Astico) ma non quando è in secca, sennò resto lì come un pirla trascinato dal vento.

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